martedì 28 ottobre 2008

Lo voglio!!!!!

A cosa serve lavorare e sudare sette camicie ogni giorno?


A questo!!!!! Lo voglio ora!!!!!



Notte prima del Diwali

Come ogni anno, da migliaia di anni, in India si celebra il Diwali: i balconi e le porte delle case, inclusa ovviamente la mia, si riempiono di piccoli vasetti di terracotta riempiti d'olio, entro i quali uno stoppino viene acceso per indicare alle divinità benevole la via verso casa. Secondo la versione più accreditata nell'India del Nord, le luci vennero per la prima volta accese, in un tempo estremamente lontano, per indicare a Rama, il leggendario Re di Ayodhya, la strada del rientro dalla sua spedizione a Lanka per liberare la moglie Sita dal re-demone dello Sri Lanka, Ravana. Un'altra versione, diffusa in tutta l'India, vuole che le luci vengano accese, più "prosaicamente", per indicare la strada di casa a Lakshmi, la Dea della Ricchezza.

A prescindere dalle credenze di ognuno, come sovente avviene in India, l'aspetto estetico, che qua sovente si traduce nel fare quanta più luce e quanto più rumore possibile, ha un ruolo fondamentale: tutti i palazzi di chi se lo può permettere sono incorniciati da fasci di lampadine colorate, o avvolti in cascate di luci; le vetrine dei negozi di alimentari si riempiono dei mille colori delle composizioni di dolci che solitamente si regalano in questa occasione; le showroom dei quartieri più abbienti espongono i loro prodotti secondo uno stile che ricalca fortemente quello adottato in Occidente durante il Natale.

Ma, per avere tanta luce e, ancora più importante, parecchio rumore, cosa c'è di meglio dei fuochi d'artificio? Niente, e infatti la notte prima del Diwali tutti sono intenti a provare l'arsenale di botti, fischioni ed altri giochi pirotecnici che nulla hanno da invidiare al migliore capodanno napoletano, inclusi, purtroppo, i risvolti tragici. In tal senso può essere illuminata una telefonata intercorsa durante il Diwali 2006 tra me e il sempre stimatissimo e catanesissimo Ing. The Door:
Ing. The Door: "Ahu, Gallarate, ma che succede? Che è 'sto macello? Vi ha invasi il Pakistan?"
Io: "Ma no, figurati, sono solo i botti per il Diwali"

Vorrei sottolineare l'imbecillità del mio vicino di casa, il quale è convinto che i vasi di fiori rappresentino la rampa di lancio ideale per dei razzi, i quali, una volta accesi, seguono traiettorie decisamente poco rispondenti alle normali leggi della fisica: per fortuna non è il mio dirimpettaio.

Se sopravviverò a questa specie di guerra civile e riuscirò a ritrovare la via di casa nella nebbia, che le esalazioni di zolfo dei petardi creano in città (non sto affatto esagerando: del resto cosa può succedere in una città di 17 milioni di abitanti, distribuiti su 1.500 chilometri quadrati, quando tutti si mettono a sparare mortaretti?) sarò più che felice di raccontarvi le mie impressioni su questa festa.

sabato 11 ottobre 2008

Memento mori


Oggi a me, domani a te

Sibiu, Romania

Lezioni dimenticate

Quaranta chilometri di una strada polverosa e caratterizzata dal tipico traffico indiano, costituito da automobili, carri, carretti, persone a piedi, mandrie di bovini e greggi di capre, separano Agra, l'antica capitale dei Moghul, famoa in tutto il mondo per il Taj Mahal, dalla città di Fatehpur Sikri. Fatta costruire dall'imperatore Moghul Akbar (1542 - 1605) sul luogo dove Shaikh Salim, un santo sufi, predisse la nascita di suo figlio, è oggi uno dei migliori esempi dell'arte e dell'architettura Moghul in India, nominata Patrimonio dell'Umanità dall'UNESCO.

Fatehpur Sikri non è solo la sua architettura e la sua arte raffinata ma trasmette ai posteri anche una grande lezione di tolleranza religiosa: pur provenendo da una dinastia musulmana, infatti, Akbar volle che tutte le religioni del suo vasto Impero fossero rappresentate nella sua Capitale ed avessero lo stesso peso politico. Ciò è dimostrato dal simbolismo della sala delle udienze private, la Diwan-i-Khas, a pianta quadrata
, dove l'Imperatore, seduto sul suo trono, posizionato su un pilastro al centro della sala, era solito ascoltare i rappresentanti delle grandi confessioni presenti all'epoca in India, ossia Induismo, Islam e Cristianesimo, seduti su pilastri posizionati agli angoli della sala, equidistanti dal centro.

Oggi, questa lezione di pacifica convivenza sembra essere stata dimenticata, dapprima negli Stati di Uttar Pradesh e Gujarat, oggi in Orissa, dove i convertiti al Cristianesimo sono vittime di aggressioni, violenze e, in molti casi, anche omicidio. In realtà, ha fatto scalpore nel mondo occidentale il fatto che dei cristiani siano stati barbaramente umiliati, picchiati e uccisi, ma quella delle violenze sui convertiti, su coloro che prima di abbandonare l'Induismo rappresentavano la base del potere delle caste più alte, i Brahmin (sacerdoti) e gli Kshatriya (guerrieri e amministratori), è una vecchia storia. Nell'India democratica e, a suo dire, pluralista, la questione delle caste è tanto aborrita dal Governo centrale e dalla sua Costituzione quanto sentita nella vita di tutti i giorni, sia in grandi città come Delhi che in piccoli villaggi. Durante un viaggio a Khajuraho, ho avuto modo di vedere la concezione del Varna, ossia della stratificazione della società, portata alle sue estreme conseguenze: nel villaggio, i quartieri per le varie caste sono fortemente divisi, e le case degli appartenenti alle caste più basse presentano una soluzione architettonica inquietante, avendo le porte molto basse per far sì che il servo sia già inchinato quando esce di casa, chiamato dal proprio padrone.

Per scappare da un sistema sociale a comparti stagni, in cui non esiste per un appartenente alle caste più basse o un fuori casta la possibilità di migliorare il proprio status sociale, l'unica soluzione è abbandonare la giustificazione religiosa alla base di esso data dall'Induismo e convertirsi ad una religione egalitaria, sia essa il Buddismo, l'Islam o, in tempi più recenti, il Cristianesimo. Il fenomeno delle conversioni, sempre esistito, ha assunto, da circa un secolo e mezzo, proporzioni massicce: uno dei primi esempi di conversione di massa, difatti, risale al XIX secolo, quando i Pulaya (braccianti agricoli) di Travancore, censiti nel 1836 in quasi 165.000 persone, abbandonarono in massa l'Induismo per abbracciare la confessione Anglicana, ispirati dalla concezione cristiana per cui tutti gli uomini nascono uguali. Con l'indipendenza dalla Gran Bretagna e la proclamazione della Repubblica, molti movimenti politici sono nati in difesa degli interessi dei dalit, ma nemmeno uno dei più grandi paradossi della Legislazione indiana, ossia da un lato abolire le caste, dall'altro riservare agli appartenenti alle Backward Castes una quota nella Pubblica Amministrazione e nelle Scuole, ha permesso alla maggioranza dei fuori casta di migliorare la loro condizione.

Come si dice, i vecchi metodi sono sempre i migliori, ed ecco quindi riprendere le conversioni di massa, fortemente caldeggiate dai leader dalit, che hanno scatenato l'ira degli appartenenti all'Hindutva, il movimento filosofico e sociale che mira a riportare l'Induismo alla sua "purezza originale", nonché l'odio e l'invidia, nello specifico caso dell'Orissa, degli adivasi (termine con cui si indica gli appartenenti a tribù non indoariane, verosimilmente i primi abitanti dell'India), ancora costretti in una situazione di indigenza e non disposti ad abbandonare la fede e le usanze dei loro padri. Presso popolazioni stremate dall'indigenza, dove ancor forte è il tasso di analfabetismo e dove la maggioranza della gente è illetterata, è assai facile che l'odio e l'invidia si trasformino in violenza ed è quello che sta succedendo in Orissa.

Quattro secoli fa, Akbar invitò dei gesuiti di Goa, allora colonia portoghese, alla sua corte di Fatehpur Sikri perché lo istruissero sul significato del Cristianesimo, nonché nei maestri induisti, per capire quanto di buono l'Induismo potesse offrire al suo Impero. Cinquant'anni fa, il Mahatma Gandhi, pur essendo Induista, affermò che tutti, a prescindere dalla loro religione o casta, sono figli dello stesso Dio e pianse, quando si scatenarono le violenze tra Hindu e Musulmani all'indomani della Partition, ovverosia della suddivisione tra India e Pakistan. Oggi l'India, considerata un "laboratorio" per la pacifica convivenza tra le religioni, è scossa da violenze di matrice religiosa, dimentica delle lezioni di due dei suoi leader più illuminati.