mercoledì 13 febbraio 2008

Gwalior, Khajuraho e Orchha

Postato in origine sul blog MySpace, aprile 2007

Sulla Lonely Planet si legge che la situazione della rete stradale del Madhya Pradesh è molto scadente, migliore solo rispetto a quella del Bihar. A questo punto, dopo aver avuto esperienza di un paio di viaggi in pullman, il Jhansi - Khajuraho da sette ore circa e il Jhansi - New Delhi da dodici ore, mi vengono delle domande su cosa mi aspetterà se mai andrò nel Bihar... e le risposte non mi piacciono affatto.

A voler essere romantici, si potrebbe dire che sia stata una gita alla ricerca dell'antichissima gloria di quella che una volta era una delle regioni principali dell'India, il Bundelkhand, con una prima tappa in uno dei forti più contesi della storia dell'India.

Gwalior

Il primo impatto con Gwalior non è niente di speciale, anzi, vede il ripetersi della solita procedura da stazione indiana, con auto-walleh che ti pongono sotto assedio per portarti nell'albergo dove riceveranno una commissione. Arrivando da una notte insonne per essere sicuro di prendere il treno e da una breve dormita in treno, nell'afa di un caldo pomeriggio di aprile, devo dire che questa pratica risveglia istinti omicidi.

Capisci davvero il perchè ti sei fermato in questa città quando un auto ti porta fino all'Alamgiri Gate e, guardando in alto, vedi la fortezza in tutta la sua imponenza.

Non mi voglio soffermare su descrizioni architettonico-stilistiche del forte, per quello esistono già decine e decine di libri e guide, ma voglio fare un breve appunto sulle sensazioni che esso trasmette: la grandiosità dei portali d'accesso, la struttura che sembra spuntare dalla roccia, l'aria di impenetrabilità che traspare dalle strutture difensive, tutto concorre a darti un senso di impotenza quando sei sotto di esso e di invincibilità quando vi sei dentro.

La gente poi mi è sembrata abbastanza premurosa, e, a riprova di ciò, posso dire che, per la prima volta da quando sono in India, un ristorante si è rifiutato di servire una pietanza a base d'agnello poiché la carne non era fresca. Quest'accortezza, che a noi in Occidente parrebbe normale, qua in India ha molto valore, traccia di una cultura dell'ospitalità che, da quanto ho letto, ha sempre contraddistinto gli Indiani, ma che sovente viene dimenticata in favore di qualche rupia in più.

Datia

A molti questo nome non dirà niente, in effetti solo la guida del National Geographic, in un breve cenno, riporta di questa città, posta un centinaio di chilometri dopo Gwalior sulla linea ferroviaria, eppure mi ha incuriosito ciò che ho visto, sebbene solo per pochi minuti mentre il Punjab Mail mi portava a Jhansi.
Il paesaggio sulla tratta Gwalior - Jhansi è disseminato di rovine di quelli che una volta dovevano essere forti, palazzi e templi dell'epoca dei Bundela: in alcuni casi cumuli di macerie, come in un luogo a cui non sono riuscito a dare un nome a un'ora circa di treno da Gwalior, ma in altri casi si tratta di posti che potrebbe valere la pena visitare, come il palazzo che ho visto poco prima della stazione ferroviaria di Datia.

Potrebbe anche, ma su questo non mi voglio ancora sbilanciare, essere interessante fare tutta quella strada in macchina (e qui si vede l'archeologo): spero di poterlo fare presto, dal momento che è abbastanza comodo da Delhi.

Khajuraho

Anche in questo caso non voglio parlare dei templi più famosi di Khajuraho, quelli del complesso occidentale e del complesso Jain, stranoti nel mondo per le sculture erotiche (questo è un termine edulcorato, molto da guida turistica: si può tranquillamente parlare di pornografia), che sono comunque di una bellezza incredibile, anche per la qualità dell'esecuzione, ma di altre cose che mi hanno colpito durante la mia visita.

Un tempio di Brahma? Ma...

Ai confini del villaggio vecchio di Gwalior si trova un tempietto, piccolo e peraltro non granchè bene conservato, che probabilmente non avrebbe meritato più di uno sguardo veloce, se non fosse per una frase detta da Rishi, il ragazzo che mi faceva da guida: this is a Brahma temple. Cinque parole, ma abbastanza da stimolare il mio interesse, dal momento che non dovrebbero esistere altri templi di Brahma su questa Terra, se non quello di Pushkar.

Stando alla guida di Khajuraho edita dall'Archaeological Survey of India, l'attribuzione del tempio ad un culto di Brahma sarebbe errata e da ascrivere alla presenza di un lingam a quattro facce scambiata per la rappresentazione canonica del Dio, ossia una persona con quattro facce barbute rivolte verso i quattro punti cardinali. Non mi voglio sbilanciare troppo, dal momento che la mia conoscenza dell'arte e della cultura induista del periodo Chandela è relativamente scarsa, ma è interessante notare come le quattro facce del presunto Brahma siano effettivamente orientate, sebbene con approssimazione, verso i quattro punti cardinali; è altresì interessante notare come la tradizione del luogo attribuisca il tempio effettivamente a Brahma, specificando che non vi è più alcun culto in esso, in osservanza alla maledizione scagliata dalla moglie Saraswati.

Secondo quanto riferitomi da più persone a Khajuraho, esisterebbe almeno un ulteriore tempio di Brahma in India e, documentandomi, ho trovato che ce ne sono almeno altri due o tre sparsi per il subcontinente, di cui uno a Goa, più altri fuori dall'India, ad Angkor Wat, in Cambogia, ed a Prambanan, in Indonesia. A questo punto potrebbe diventare molto interessante capire in basi a quali fattori Pushkar ha assunto sempre più importanza, fino a diventare per molti l'unico tempio.

Vita da villaggio

Un'altra occasione è stata il poter visitare il villaggio vecchio di Khajuraho, dove finalmente ho potuto capire, almeno per quanto riguarda quella zona, cosa si intende per vivere in un piccolo centro di provincia indiano. Colgo tra l'altro l'oocasione ringraziare un ragazzo del luogo, Rishi Singh, che tra l'altro parla un buon italiano, per essere un autodidatta, per essere stato un'ottima guida.

Nonostante gli sforzi dei padri dell'indipendenza indiana e di Gandhi in particolare per eliminare il sistema delle caste, esso permea e regola ancora la vita all'interno di una comunità rurale. Spiegando per brevi cenni, le caste indiane, che a loro volta si suddividono in decine e decine di sottocaste, sono quattro:

- Brahmin, i religiosi, che, a differenza di quanto avviene col Cristianesimo e l'Islam, non sono legati ad una dogmatica od organizzati all'interno di una struttura ecclesiastica;
- Kshatriya, la casta dei guerrieri e dei dominatori;
- Vaishya, la casta dei commercianti e di quella che noi potremmo definire "borghesia";
- Shudra, la casta degli agricoltori e dei servitori, a cui ogni tanto vengono associati anche i paria, gli "intoccabili", che sono invece fuori dal sistema delle caste.

Questa differenza si nota innanzitutto nell'impianto urbanistico: il villaggio è suddiviso in quattro quartieri, uno per casta, ognuno dotato del suo tempio, che tra l'altro in molti casi si avvale di reperti dei templi circostanti (non indignatevi: con quale materiale pensate sia stata costruita la Roma medievale e rinascimentale?). Le case degli appartenenti alle caste più alte, hanno delle facciate tutto sommato dignitose, ma non mi posso pronunciare sugli interni, che spesso in India non rispettano la cura riposta alla facciata. A ben pensarci, questa è un'epitome della cultura indiana, dove, di fronte alla società e alla famiglia, è necessario mantenere una facciata pulita e di rispettabilità, quale che sia poi la realtà.

Mi ha colpito abbastanza, sebbene, a rifletterci, sia perfettamente coerente con la cultura indiana, un particolare architettonico delle case nel quartiere Sudra, ossia le porte delle case molto basse. Mi è stato spiegato che è voluto, in modo che, quando il servitore esce dalla casa chiamato dal padrone, sia già inchinato a rendere omaggio.

Ricordo divertito dei bambini, seduti sul marciapiede nella zona Brahmin del villaggio, mostrarmi con orgoglio il proprio quaderno con le parole scritte in Inglese, chiedendomi di leggere le parole scritte in esse, e poi, alla frase "Yeh bohot achchha hain. Kisko hain?" (E' molto bello. Di chi è?), contendersi fervidamente la paternità dell'opera.

Il mio intestino ricorderà poi con piacere l'overdose di fermenti lattici che gli ho procurato con la quantità immane di lassì che ho bevuto da un vecchietto, titolare di un negozietto non lontano dall'ingresso del complesso occidentale.

Mau e Nowgong

Ecco sicuramente due nomi che non diranno niente a nessuno: due normalissimi centri di provincia indiana, lungo la strada che da Chhatarpur porta a Jhansi, che, immagino con forte ironia, dal momento che non riesco a trovare altra spiegazione, viene definita National Highway 75.

Mau è sede di un tempio, arroccato sulla cima della collina, dedicato a Shri Ganesh-ji, come lo nominerebbero gli Indiani stessi, risalente all'VIII - IX secolo d.C., che purtroppo non mi sono potuto fermare a visitare, causa una tabella di marcia relativamente stretta per poter visitare Orchha e, soprattutto, a causa del fatto che neanche ne sospettavo l'esistenza, prima di passarvi davanti.

Di Nowgong mi ha lasciato un po' sorpreso ed un po' divertito la reazione degli abitanti, evidentemente non abituati a vedere molti occidentali fermarsi nel loro villaggio, consumare una dose massiccia di succhi di frutta e rivolgersi a loro in un Hindi relativamente abbozzato, ma che loro riuscivano a capire.

Orchha

A dire il vero, avendo deciso di non soffermarmi sulla descrizione in senso stretto dei luoghi visitati, per quanto magnifici, come nel caso della grande fortezza di Orchha, non ho molto da dire su questa località, salvo fare una nota estremamente positiva sulla totale mancanza di qualunque procacciatore d'affari, una condizione estremamente rilassante per l'ultimo giorno di una gita.

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